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La rinascita della ex Bio-on: quale modello di gestione per il sogno della plastica pulita?

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di Vanni Sgaravatti

Del progetto Bio-on ho parlato in diversi articoli precedenti nei quali ricordavo il valore di quel progetto, dal punto di vista di chi l’ha vissuto dall’interno ed in cui ho solo accennato alle vicende che hanno portato la finanza tossica ad avvelenare il sogno della plastica pulita (come ben descritto nel libro di Degli Esposti e Franchini: “Bio-on L’unicorno Avvelenato, Edizioni Artestampa) e solo accennato agli errori, in buona e cattiva fede, di tanti protagonisti di questa triste vicenda.

Ma, dal momento che si parla oggi di un possibile rilancio, dopo l’acquisizione da parte del Gruppo Maip, occorre per un momento mettere da parte le vicende giudiziarie che si completeranno nel prossimo anno e che sono convinto faranno luce sui tanti torti subiti, per riflettere sulla possibilità di un futuro. La domanda che, a questo proposito, va fatta per evitare di rimanere nel vago prestandosi così a futuri giudizi di scarsa chiarezza nelle comunicazioni è a mio avviso quella relativa al ruolo che la nuova Bio-on intende avere nel settore innovativo della bioplastica, in particolare del PHA, microplastiche comprese. E, soprattutto, in base, a questo ruolo, cioè al suo nuovo modello di business, qual è il modello di gestione coerente che si vuole adottare e in quali tempi? Due modelli, quello di business e di gestione che, come gli operatori sanno, dovrebbero tendere ad essere coerenti, nei fatti come nelle dichiarazioni.

Ricordo che il progetto Bio-on ha di fatto creato un nuovo settore quello della produzione di PHA poliidrossi-alcanoati (almeno in Italia), grazie alle innovazioni disruptive della start up bolognese (le innovazioni disruptive sono quelle in grado cioè di cambiare ed incidere potenzialmente nei processi produttivi e in alcuni modelli di consumo) che comprendeva la ricerca ottimale della efficiente ed efficace industrializzazione dei processi produttivi, effettuata direttamente nell’impianto pilota di Castel San Pietro. Le prove di industrializzazione comportavano una prima fase di messa a punto della riprogettazione di parti dell’impianto, dopo una prima fase di avviamento dello stesso, che, a partire dalle ricette messe a punto nei laboratori della stessa Bio-on, a partire, ad esempio, dagli scarti agroalimentaria, già produceva il prodotto, in quantità “sperimentali”, e già in grado di soddisfare le esigenze relative alle prime applicazioni derivanti dai noti brevetti.

Aggiungo, incidentalmente, che i costi di questa prima fase non dovrebbero essere computati alla costruzione dell’impianto, ma scorporati, dimostrando così che l’importo per la costruzione, a partire dai primi pali delle fondamenta, fino alla produzione del primo lotto produttivo è molto meno distante dai preventivi e ancora meno distante da quelli che ci si poteva attendere, tenendo conto dell’atteso e fisiologico margine tra preventivi e consuntivi. In una seconda fase, quella che si era avviata, al momento dell’attacco non corretto della concorrenza, occorreva effettuare ulteriori messe a punto dei parametri di processo, con eventuali altre piccoli interventi di riprogettazione.

Il costo per quantità di PHA prodotto aveva già cominciato a ridursi, anche se avremmo dovuto lavorare ancora molto per raggiungere quell’equilibrio tra prezzo di mercato potenziale e costi di produzione e per ottimizzare ancora i consumi di acqua dell’impianto.

Ma, soprattutto, va tenuto conto di diversi fattori per comprendere quale doveva essere il costo per quantità di prodotto target per rendere il business di chi avrebbe acquisito il Know-how Bio on estremamente redditizio e, di conseguenza, particolarmente interessante nel tempo per gli investimenti in borsa su Bio on.

In primis, va tenuto conto che il costo per unità di prodotto ottimizzato nell’impianto di Castel San Pietro da 1000 tonnellate annue non avrebbe ovviamente potuto tenere conto delle economie di scale che si sarebbero create in impianti da 10 mila tonnellate e che in quegli impianti avrebbero diminuito il costo per unità di prodotto. Per non parlare di quale sarebbe stato il valore di quel costo in futuro, quando, da una parte, la richiesta di PHA fosse andata, per così dire a regime, con quelle catene di forniture e di miglioramenti continui condivisi che si sarebbero creati.

E ancora si aggiungano i limiti nel prendere come riferimento valutativo il costo di produzione attuale della plastica da polipropilene, senza tenere conto dell’aumento nei prossimi anni dei vincoli normativi alla produzione, distribuzione, vendita e consumo della plastica da polipropilene e dei relativi impatti sui costi di produzione, in considerazione della crescente consapevolezza dei disastri sull’ambiente e sulla nostra salute. Quindi, l’impianto di Castel San Pietro, alla luce di queste considerazioni non era in alcun modo un’impresa troppo futuristica o troppo da sognatori, ma certamente è stata una coraggiosa sfida quella di comprendere nel proprio modello di business anche le prove di industrializzazione, e che, proprio, per questo aveva attirato entusiasmo e fiducia da parte di tanti giovani talenti. Tecnici esperti e tecnici da formare che in quel modello, in quella prova di industrializzazione, vedevano la possibilità di dare una spinta al cambiamento e, per giunta, partendo dal basso.

È questo che ha fatto fare un salto valoriale al progetto Bio-on, almeno per quelle persone che chiedevano di salire a bordo del progetto. Le condizioni necessarie per la prova di industrializzazione richiedevano uno stile di management e di collaborazione particolare: entusiasmo, fiducia, collaborazione reciproca. La partecipazione e l’integrazione di gruppo, la formazione non solo tecnica, ma anche rivolta ad un saper essere innovativo, non erano solo parole di moda, ma venivano vissute mentre il progetto si sviluppava, la creatura prendeva forma.

Nessuno doveva rimanere indietro, in quel gruppo in cui i conduttori di impianto imparavano a controllare la centrale di controllo e automazione Siemens di ultima generazione, in cui si recitava il credo: prima le persone, poi l’ambiente, poi la produzione. Ricevevamo allora migliaia di curriculum al giorno, e ancora oggi dalle scuole e università, giovani che non conoscono cosa è successo chiedono se possono almeno fare uno stage. Allora ritornando alla domanda iniziale, dovremmo, alla luce di questo richiamo storico, chiedere di quale progetto di rilancio del progetto parla chi ha acquisito la ex Bio-on, il cui valore era stato stimato teoricamente dai curatori in 95 milioni di euro, per un’impresa le cui prospettive al suo massimo di valore di capitalizzazione, erano state valutate dalla borsa 15 volte tanto?

In generale, è ragionevole, in un’ottica di efficienze e di ritorni di investimento a breve termine, immaginare di adottare una politica di contenimento dei costi, di gradualizzazione degli investimenti, così che la crescita sia pagata dal mercato e dalle risorse proprie che molto spesso non sono sufficienti. E, in questi termini, è normale modificare il proprio modello di business, così sostanzialmente da ritagliarsi un ruolo più compatibile con le risorse disponibili.

Tutto nella norma, ma è di questo che dobbiamo parlare per non ricadere ancora una volta nella confusione delle informazioni e delle diverse percezioni sul possibile futuro di un progetto come questo. Dobbiamo parlare della coerenza tra modello di business e modello di gestione. È, infatti, spesso la coerenza, o meglio un certo livello di incoerenza, tra il modello di business che viene comunicato e il modello di gestione che può portare alla sensazione di mancanza di chiarezza. Se, ad esempio, nel caso di ex Bio-on, il futuro modello di business comprende i laboratori, la vendita del know how, royalties e licenze, è evidente che il modello di gestione del lavoro può essere quello di poche persone considerate detentori di un know specialistico di laboratorio e di persone che devono essere conformi a procedure, prassi, ordini. I pochi giovani presi a bordo in questo modello di business possono essere selezionati sulla base del loro costo, visto che non si chiede loro di avere una mentalità creatrice, tanto meno trasformativa.

Nulla di male o nulla di scorretto, per carità, in fondo anche questi giovani possono imparare comunque molte cose, anche se magari si può registrare un turn over elevato. Ma è evidente che non è questo il modello di gestione adatto ad un modello di business complesso e particolare come quello che richiedeva l’internalizzazione in azienda di una prova di processo di industrializzazione così innovativo. Per quel tipo di modello, lo stile di gestione, il clima interno, la politica del personale sono ciò che è in grado di riprodurre quelle situazioni in cui persino esperti di Basf che avevano vinto premi internazionali chiedevano di fare colloqui, mentre manutentori e conduttori avvertivano le loro responsabilità verso gli altri e persino verso il mondo, senza bisogno di essere controllati.

Anche le autorità locali, quelle interessate ad un vero rilancio della zona dovrebbero però avere un’altrettanta cura nel precisare il significato della parola “rilancio”.

È stato un passo in avanti poter contare su un imprenditore che acquisendo la ex-bio on sia in grado di riparare alla crisi avvenuta, soprattutto evitando che questa si ripresenti. È, infatti, interessante poter evitare nuova disoccupazione, ma persino contare su qualche nuovo occupato, che permettano di sostenere che in zona c’è un rilancio dell’occupazione nel settore green, per quanto minima. In questa ottica e in questa prospettiva, l’appoggio, il gradimento delle istituzioni locali sono importanti e utili per la gestione quotidiana della nuova Haruki (ex bio on), ma diverso ovviamente è se la parte del modello di business della bioplastica da rilanciare a Castel San Pietro (Bologna), comprende l’industrializzazione del processo oppure no e in quali tempi.

Il territorio allora ritornerebbe ad essere, in prospettiva, un centro di occupazione, un luogo di sperimentazione di produzione e gestione socialmente e ambientalmente sostenibile di valore mondiale. E queste parole non sarebbero slogan di moda, ma realtà vissute. Ovviamente, tanti possibili onori comportano, evidentemente, tanti possibili oneri e anche qualche rischio. Insomma, ancora una volta, non si fanno le nozze con i fichi secchi. Evitino allora chi ancora è interessato a capire la vicenda “Bio on” a ripetere gli errori di comprensione di questa realtà, scambiando lucciole per lanterne. Sono convinto che abbiamo la possibilità di metterci insieme di spingere nel vendere lanterne, basta, però, sapere distinguere quando si sta investendo in lucciole.

Se tutti ci crediamo, quel futuro potremmo tornare a sognarlo.

 

 

(18 marzo 2024)

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