di Vanni Sgaravatti
Sto parlando della storia che ormai molti conoscono, quella del progetto di trasformare in bioplastica la plastica e la microplastica nel mondo. Una storia che comprende anche il tentativo di far morire quel sogno. Una storia anche di incompetenze e ignoranza da parte di tanti soggetti protagonisti o coinvolti in quell’affossamento, che hanno poi gestito e condizionato il contesto o il sequel dopo le operazioni speculative di disonesta concorrenza.
Sono state talmente forti le conseguenze dei comportamenti di coloro che hanno speculato e combattuto con mezzi illegali Bio on che, giustamente ci si concentra su questi aspetti, quando vengono alla ribalta, come sta succedendo.
Abbiamo assistito all’ostracismo, alla chiusura da parte di coloro che, attraversati dalle voci diffuse sulle presunte scatole vuote, che sarebbero stato dietro al sogno Bio on, non hanno voluto, al momento dello scandalo, guardarci dentro, non volendo unire il proprio nome a quella storia, quando fino a poco tempo prima era una corsa per entrarci dentro.
Considerando la verità che piano piano sta emergendo (si raccomanda di leggere il libro di Massimo Degli Esposti e Andrea Franchini “Bio on. L’unicorno avvelenato. Così la finanza tossica ha ucciso il sogno della plastica pulita”), è giusto, perciò contestare, combattere, le persone che hanno sbagliato, che si sono prestati agli interessi della concorrenza. Ma il giudizio negativo e amaro verso coloro che sono andato dietro alle proprie paure è persino banale, perché in fondo è un po’ come scoprire l’acqua calda. Del resto, chi gioca con il fuoco si può bruciare o, detto in altri termini, corre il rischio conseguente nell’aver voluto provare a farcela da soli, raccogliendo i soldi dalla borsa e dal pubblico risparmio, che, come tutti sanno, si basa sulle scommesse e sugli umori che vanno e che vengono.
Tant’è vero che la mutevolezza di parole, immagini e cognizione della realtà sono la cifra di questa era contemporanea, fatta, tanto per fare un esempio tra i tanti, di personaggi come gli influencer, che tempo fa manco si sarebbero immaginati.
In effetti, abbiamo gioito quando Bio on è arrivata ad un miliardo e 300 milioni di capitalizzazione. Un importo che, naturalmente, era fondato sulle scommesse di uno sviluppo futuro e non di una realtà. Una realtà che era una perla preziosa, un fiore all’occhiello, ma più per le sue potenzialità, che non ancora per le sue realtà pienamente produttive.
Non ci si può lamentare se gli umori cambiano, è vero, ma è altrettanto vero che la società si è inventata regole normative per limitare l’uso delle maldicenze, delle fake news, dell’insider trading, che potessero assicurare la correttezza del mercato anche quello dei capitali. E nel caso di Bio on, sembrano essere stati manipolati, con arte truffaldina. E questo non è proprio la norma, anche in un mondo competitivo come questo.
Nella nostra storia emerge, come è naturale che sia, che, a presidiare quelle regole normative, ci sono sempre uomini, giudici, con scarse risorse disponibili e competenze non sempre aggiornate su un mondo economico finanziario che corre davvero veloce.
Oppure commissari e curatori che, nei periodi di crisi aziendali, avrebbero dovuto prendere le redini per salvare le risorse salvabili, soprattutto quelle umane, che non dovrebbero essere equiparate a quelle meccaniche, tecniche e di capitali e che si dovrebbero muovere per raggiungere gli obiettivi formali, secondo regole dettate dai nostri codici.
Non possiamo meravigliarci se, però, l’approccio sia quello di massimizzare il guadagno, pur nel rispetto degli obiettivi posti, cercando di evitare comportamenti etici particolarmente negativi, ma, soprattutto, stando attenti a non incorrere in evidenze di accuse di non conformità normative. Ma senza necessariamente sentirsi in dovere di fare tutto il possibile per essere trasparenti e di supporto a tutti gli stakeholders, lavoratori in primis. Queste sembrano essere le regole di questo gioco.
Nel contesto di Bio on, naturalmente, le vittime di errori e irregolarità, di attacchi impropri, di concorrenza sleale, hanno tutto il diritto e forse il dovere di combattere per far emergere la qualità della proposition industriale, l’impedimento scorretto che il cosiddetto sogno si realizzasse.
Ma detto questo e portando tutta la mia attiva solidarietà per queste specifiche lotte, quello che emerge sono anche i disvalori di un mondo del business in cui il mercato è tutto fuori che un grande equilibratore di valori etici, morali e umani, che emerge ancora più forte, quando qualcuno bara alle regole.
Ma c’è un altro tema oltre quello relativo al “risarcimento delle ingiustizie subite” ed è quello della speranza di una rinascita.
La domanda che, quindi, possiamo farci è, al di là di forme compensatorie, risarcitorie, economiche, finanziarie, di immagine o morali, che dovrebbero, per amore di giustizia, emergere, cosa rimane del progetto? Si è salvato qualcosa tramite la nuova acquisizione in concordato fallimentare dal Gruppo Maip?
Qui occorre fare chiarezza. La Maip ha acquisito i brevetti e il capitale materiale di proprietà di Bio on spa, ma non ha acquisito il know-how immateriale, quelle soft skills, quel potenziale immagine di chi ha fatto partire dal basso la progettazione e costruzione dell’impianto, sviluppato il sogno sulle ali della gestione di Bio on plants.
Per riflettere su questo, bisogna fare una brevissima esplorazione di storia delle innovazioni. Quando parliamo di sogno, di rivoluzione, di cambiamento di passo, parliamo di innovazioni “disruptive”, che cambiano gli usi e consumi del mondo. È il caso dell’elettricità, dell’automobile, ma in tempi recenti della plastica da propilene e dei chip.
Parlando degli ultimi tre quale è stato il fattore dirompente? Non tanto la geniale invenzione iniziale, ma l’industrializzazione. Nel caso delle automobili è stato il fordismo, nel caso della plastica è noto come l’amministratore delegato dell’Eni del tempo disse al Prof. Galli, allora assistente del premio Nobel Natta, che aveva 6 mesi per dimostrare che tale invenzione poteva essere industrializzata.
E quella fu la grande scommessa da vincere, necessaria per avere i grandi finanziamenti, ma anche supportata da soggetti finanziariamente molto robusti.
Nel caso dei microchip, non furono i transistor che sostituirono le valvole termoioniche, né i primi circuiti integrati, ma la miniaturizzazione dei transistor, la possibilità di incidere attraverso tecniche “fotografiche” nel silicio, miliardi di transistor, per memoria ed elaborazione di dati, in un pezzo di silicio, ma ancora la possibilità di diminuire i costi di produzione che hanno portato al vantaggio strategico nel disporre di una complessiva innovazione che regola il mondo moderno. E non fu solo ma Silicon Valley e i soldi del pentagono e della Nasa ma tutta una filiera che, i sovietici prima e i cinesi poi, facevano fatica a copiare.
Ma, cosa c’è di simile ripensando a Bio on e al suo progetto di sostituire la plastica e la microplastica con il pha, materiale biologico proveniente da scarti agroalimentari o persino dalla CO2?
I brevetti e il know-how tecnologico caratteristiche di una IP company (Intellectual property società) c’erano tutti in Bio on e costituiscono ancora oggi un fattore che aveva influenzato il successo nella ricerca di finanziamenti per lo sviluppo dell’azienda. E questi elementi sono quelli potenzialmente recuperati dalle ceneri, dal nuovo investitore.
Ma, come per i microchip e la plastica, è la ricerca del processo di industrializzazione che fu la scelta temeraria, coraggiosa, innovativa e che avrebbe dovuto suscitare interesse anche per i partner della governance territoriale, politici e istituzioni che avrebbero dovuto avere a cuore la crescita di un’occupazione di qualità, ma soprattutto la formazione di punti di eccellenza per lo sviluppo economico di un territorio.
È stata una scommessa quella di provare a lanciarsi in proprio nel cuore dell’innovazione che produceva cambiamento, senza aspettare che ci provassero altri con licenza e il supporto consulenziale di Bio on, che, in fondo, era la ratio di fondo del contratto con Ikea.
È questo il punto che non è stato messo a fuoco adeguatamente da coloro i quali hanno valutato l’importanza di Bio on solo sulla base del numero degli occupati presenti oppure da chi ha troppo frettolosamente bollato la crescita finanziaria come frutto di scommesse e il declino come il frutto delle speculazioni scorrette, quando si scoprirono i conflitti di interesse di alcuni speculatori. E, forse, non fu messa a fuoco neppure da chi voleva comprare l’azienda, senza comprenderne fin in fondo gli onori e gli oneri.
Tanti sono esperti ormai della materia Bio on e, quindi, ormai, la mia esperienza non è più necessaria per fornire ulteriori valutazioni tecnico gestionali sulla vicenda, che, peraltro, sono perfettamente raccontate nel libro citato in precedenza, ma almeno sia chiaro che quando si parla di sogno, molti come me, pensano all’innovazione disruptive, quella che non può non comprendere il processo di industrializzazione.
Perché è questo che ha rappresentato la motivazione dei tecnici, dei visionari creativi, degli operatori tecnologici che si sentivano inventori e che operavano in Bio on Plants. Tante persone che non erano proprio, come qualcuno si ostina a pensare, dipendenti che dovevano obbedire alle ricette dell’apprendista stregone, senza offrire incentivi che diventavano “salsicce con cui non bisogna legare i cani”.
In conclusione, sono due, quindi, i filoni. Quello della battaglia per dare il giusto peso alla storia e ricompensare i torti subiti, che, ricordo, non sono solo quelli dei fondatori o degli investitori, ma anche di coloro che hanno sofferto e che sono rimasti dipendenti dell’azienda fino all’ultimo, per scelta o per necessità, subendo fino in fondo subendo anche sofferenze psicologiche, di cui sono stato testimone.
E quello di chi si interroga sulla strada del futuro, dell’industrializzazione e dell’impianto, che richiede spalle robuste ed è quel sogno che dovrebbe indurre ad un salto di qualità strategico da parte dei protagonisti privati, e che così dovrebbe essere considerato anche dai soggetti pubblici interessati alla comunità e al territorio.
Altrimenti, se questa non è la prospettiva, la nuova Bio on diventa un’iniziativa imprenditoriale, potenzialmente di buona ricerca, a cui persino gli Enti pubblici potrebbero cercare di favorire un percorso, ma sempre nell’ambito delle tante priorità che spesso sommergono tali Enti.
(23 febbraio 2024)
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