di Vanni Sgaravatti
Ci sono nazioni che, pur essendo tra quelle che, come i paesi in via di sviluppo, esportano materie prime e importano beni e servizi dai paesi occidentali, sono potenti, sufficientemente sviluppate e detengono fonti energetiche fondamentali per lo sviluppo occidentale, come il petrolio e il gas e che, anche per questo, hanno un ruolo di grande rilievo nelle dinamiche geopolitiche. È il caso della Russia.
Per comprendere le dinamiche economiche all’origine di quelle sociopolitiche di tali paesi si può valutare l’andamento dei prezzi delle risorse energetiche esportate.
Fino al 2015, il prezzo del petrolio che assicurava un equilibrio tra le esportazioni e le importazioni necessarie a soddisfare la domanda interna era di 40 dollari al barile per la Russia, mentre per il Venezuela e il Qatar il prezzo era di 80 e 50 euro. Inoltre, il prezzo del petrolio che avrebbe assicurato un pareggio di bilancio nel 2016 era per la Russia di 70 dollari al barile, di 110 dollari per il Venezuela e di 50 dollari per il Qatar. Influisce in queste stime anche la dimensione della popolazione. Ad esempio, il livello di esportazione del petrolio diviso per numero di abitanti è ovviamente molto diverso nei paesi citati. I costi sociali di un paese piccolo come il Qatar sono molto inferiori a quelli del Venezuela.
Altre variabili socioeconomiche sono all’origine di traiettorie diverse di sviluppo geopolitico, come quelle registrate dagli anni ’80 per la Russia piuttosto che per la Cina. Quest’ultima partiva con un reddito pro-capite molto basso e quindi la crescita del consumo interno e lo sviluppo di economie ad alta intensità di manodopera con un costo del personale basso era la strategia adatta, al tempo di Deng Xiao Ping, per un miglioramento della ricchezza cinese. La Russia, che aveva un alto tasso di alfabetizzazione e un reddito pro-capite, che era solo metà di quello americano, avrebbe dovuto puntare anche su diversificazioni produttive e innovazioni per crescere. La mancanza di competenze manageriali, l’oligopolio nei mercati, la mancanza di imprenditività reale nei settori produttivi, come quelli della difesa e quello agricolo, comportò una sempre maggiore dipendenza dalle importazioni estere non compensate dalle esportazioni energetiche. I flussi finanziari per reggere i costi industriali provenivano dall’estero, l’inflazione aumentò a grandi livelli, e di conseguenza la quantità e qualità delle importazioni calarono. La povertà aumentò, ma Gorbaciov non volle utilizzare la forza per contenere le ribellioni dovute al disagio sociale conseguente. E il sistema implose.
Anche da questa situazione si sviluppò quel diffuso sentimento di frustrata sudditanza non solo rispetto ai mercati esteri, ma anche rispetto alle competenze ed innovazioni di un mondo globale: un sentimento comune, del resto, alle classi lavoratrici di settori industriali tradizionali in crisi o alle persone più anziane in occidente.
Le disuguaglianze sociali e culturali erano, però, in Russia molto maggiori e non sono state compensate da un sistema di welfare che società più ricche come quelle occidentali si potevano permettere, anche tenendo conto della più alta produttività del sistema occidentale. Questa inefficiente oligarchia capitalistica russa ha retto sia sulla base di aiuti occidentali, i cui governi negli anni ’90 speravano di mantenere la pace, sempre nel quadro geopolitico creatosi a favore dell’egemonia occidentale, sia attraverso l’integrazione dei mercati, sia attraverso flussi finanziari del sistema bancario americano. Transazioni che però si scontravano con il progetto che, già dal 1985, sotto la guida di Andropov, miravano a pilotare il sistema di controllo del Kgb, attraverso un sotterramento e mascheramento di uomini e di risorse, nella fase di transizione dal socialismo di stato al capitalismo di stato. In attesa del grande riscatto. Gli uomini del Kgb, come ha riportato Catherine Belton, premio Pulitzer per il suo reportage, furono tra i primi che avevano compreso l’incapacità del sistema socialista sovietico di mantenere gli apparati dell’imperialismo russo, dedicati alla destabilizzazione e alla corruzione dell’occidente.
Da tempo gli apparati non erano più gli strumenti a servizio dell’ideologia comunista, ma era quest’ultima che era diventata il mezzo per raggiungere il fine della crescita della potenza imperiale di quegli apparati. Un’ideologia, quella comunista, che risultava ormai un mezzo inadeguato a questo scopo. Questo tipo di capitalismo oligarchico senza controlli e contrappesi ha favorito non più una governance basata su un partito centrale e imperiale, ma quella su un uomo forte, modello ideale di riconoscimento del nuovo sistema.
Un uomo forte che per essere creduto, ancora più di prima, necessitava non tanto di una narrazione per il futuro (quella che ha giustificato i morti sovietici per fame, in vista del futuro paradiso di uguaglianza in terra), ma di una narrazione del passato.
Una narrazione che recuperava, le tradizioni, l’identità della forza imperiale, i simboli religiosi e tutto quello che serviva perché il popolo non si sentisse più fuori da mondo, ma protagonisti del mondo, indipendentemente dalle reali condizioni socioeconomiche, le cui cause, peraltro, venivano individuate in base alle narrazioni create e diffuse dall’uomo forte al comando e dal suo staff.
Naturalmente, il gioco geopolitico russo era esistenziale per tutte le organizzazioni e le strutture che ne costituivano l’intelaiatura e la tenuta della governance. La lotta per il potere, perciò, è stata tragica e dura dagli anni ’90: pensiamo, tanto per fare qualche esempio, alle camuffate stragi cecene, attribuibili al Kgb, piuttosto che alle alleanze con la malavita russa, in particolare quella di San Pietroburgo, che nello scambio grano occidentale per petrolio russo, intascava tangenti formidabili con cui corrompeva il sistema finanziario occidentale, ben propenso a farsi corrompere o a ripagare i debiti dei casino di un certo Trump (600 milioni di dollari) frequentati dalle organizzazioni mafiose russe. Oppure ancora ai suicidi degli oligarchi che non volevano stare agli ordini del nuovo potere, illudendosi che i soldi presi dai ministeri sovietici in declino per far crescere le loro fortune fossero davvero loro e gestibili nel libero mercato, invece di un prestito nascosto da restituire su ordine dell’uomo forte al comando.
Il risultato è che questa ricetta ideologica a supporto del nuovo regime è diventata un ottimo punto di forza per la conquista propagandistica del mondo, uno strumento di seduzione per gran parte degli occidentali, profondamente insoddisfatti, che subivano, oltre ad un aumento della disuguaglianza socioeconomica prodotta dal famoso neoliberismo, una crisi identitaria prodotta da una globalizzazione che escludeva più che includeva.
Del resto, la ricetta che emerge dalla Nuova Russia non è male per quei delusi occidentali: un uomo forte che pensa per te, un uomo che non si fa fermare dalla burocrazia, al di fuori della corruzione e delle élite intellettuali globaliste, che inneggia alle tradizioni del mondo, in cui la certezza della saggezza popolare e dei segni identitari nazionalisti si possa sostituire alla incertezza di una scienza incomprensibile nell’affrontare un mondo fatto di altrettanto incomprensibili lavori e sistemi artificiali di gestione della vita. Un mondo che, secondo il ricordo indotto dalle favole narrate, dovesse essere come quello sicuro di una volta (a parte i 60 milioni di morti dell’ultima guerra, ma questo è un dettaglio). Ma proprio questa nostalgia per il passato tende effettivamente a ripeterlo, anche se per fortuna non nella stessa drammaticità dei fatti. I regimi autoritari dopo la prima guerra difendevano dall’invasione straniera, allora erano gli slavi, oggi le migrazioni provenienti dall’Africa, e difendevano dagli oligarchi della finanza, allora gli Ebrei, oggi le élite intellettuali delle grandi città occidentali.
E come allora altre forze provenienti da schieramenti opposti acconsentirono alla chiusura nazionalista, così oggi anche in campo progressista si matura un altro tipo di nostalgia, anche se verso un altro passato.
E’ una nostalgia verso un mondo in cui il nemico era uno ed uno solo, un sentimento accompagnato da una ribellione verso tante ricette di sistema, come quelle neoliberiste, che non hanno volto, con il desiderio di ritrovare, almeno in casa nostra, un’omogeneità di schieramenti contrapposti, che porti alla necessità di sentirsi quelli che si oppongono contro la plutocrazia dello Zio Tom, mentre i compagni che non si riconoscono più sono, venduti, quelli che sbagliano o che sono obnubilati dal mainstream. Compagni che devono essere ricondotti alla ragione del buon vecchio “yankee go home”.
Il mondo non è, però, più come allora, ma non tanto perché abbiamo maturato una consapevolezza etica differente, ma piuttosto perché è dipendente dal mondo della razionalità tecnica, dove l’accelerato degrado ambientale bussa continuamente alle nostre porte, rendendo impensabile il sovranismo come soluzione e terribilmente complicato il richiamo ad una morale universale progressista. Un degrado ambientale anch’esso difficilmente affrontabile senza il supporto proprio di quella tecnica che ne ha provocato il degrado. Quindi lo sguardo verso il passato non può essere utilizzato come un copia incolla di quello che i meno giovani hanno conosciuto e hanno trasmesso agli altri, al fine di prevenire gli effetti tragici della modernità.
Ma come conseguenza di questo modo di sentire rientriamo proprio nel tanto consolatorio occidentalocentrismo. Se, da una parte, infatti molti continuano a puntare il dito verso la presunta egemonia occidentale, di fatto auspicano paci e accordi che spartiscano le zone di influenza, impedendo che stati e staterelli rompano gli schieramenti.
E’ la logica conseguenza sia delle accuse di non cercare i compromessi territoriali, sia di quelle che individuando nella causa di tutto la provocazione occidentale, di fatto considera sia gli Ucraini, che gli stessi russi come popoli con scarse capacità di un propria autonomo e desiderato percorso di sviluppo, ma, eventualmente solo di capacità reattivo-difensive. Le loro dinamiche di potere e soprattutto le dinamiche economiche che ho citato sembrano siano considerate solo elementi di contorno, mentre le azioni che hanno portato a conflitti geopolitici che potenzialmente hanno cambiato le regole negoziali e giuridiche di convivenza planetaria sono, quindi, solo dovute a reazioni alle nostre provocazioni, alle nostre pretese di essere egemonici. E, naturalmente, questa visione si associa spesso ad approcci complottisti che vedono le provocazioni pianificate dai poteri forti, da uomini forti che si riuniscono in gran segreto e in amicizia, lupi pronti a spartirsi le pecore.
Del resto, è proprio quel sentimento di inadeguatezza ed estraneità dal mondo che porta a vedere ovunque complottatori dal volto umano e diabolico. Anche i cavernicoli di fronte ad un mondo con fenomeni incomprensibili reagivano ad un rumore sconosciuto della loro grotta immaginando la presenza di agenti di quel rumore con poteri soprannaturali, così come la loro visione animistica richiedeva.
Questo modo di vedere dipende anche dalla difficoltà nell’affrontare il mondo complesso con un pensiero “statistico”, che non significa un pensiero razionale che utilizzi strumenti statistici, ma significa uscire dalla tendenza a prendere sé stessi e il proprio circondario a rappresentanti del mondo. Se declinare il mondo in categorie apre le porte, quando proposto come approccio di sistema, alla disumanità del fare algoritmico e statistico, non possiamo adottare come criterio interpretativo il nostro personale sentire in balia di una sovrabbondanza di stimoli e informazioni.
Ritornando, quindi, ai modelli di uomini forti che premono alle frontiere della nostra porta, credo che queste siano il frutto di dinamiche con proprie traiettorie evolutive che si sono manifestate in deliri di dominio collettivo, mascherato da paranoie di accerchiamento. La raccomandazione a studiare e approfondire criticamente le informazioni su presunti trattati non rispettati rimane sempre inascoltata: del resto, l’approfondimento non è forse tipico di un pensiero elitario e intellettuale, in contrapposizione a quella buona e sana saggezza popolare, supportata da un istintivo sentire: il proprio?
Occorre però smettere di rivedere la storia come il risultato di conflitti di poteri forti in cui alcuni, gli occidentali provocano e gli altri reagiscono, ma come il risultato di intrecci di sistemi, di storia, di economia, di cultura, all’interno dei quali qualcuno può emergere come lupo o come agnello, dando un proprio senso alla via che può portare verso l’oligarchia o una reale democrazia, per caso e per necessità.
(26 novembre 2023)
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