di Vanni Sgaravatti
La caduta del muro di Berlino ha avviato il crollo non solo dell’impero sovietico, ma anche dell’ordine liberale internazionale. Anche se ce ne siamo accorti troppo tardi.
L’ordine internazionale liberale è stato rotto dall’ordine globale neoliberista (come riportato nel libro di Vittorio Emanuele Parsi: “Titanic. Naufragio o cambio di rotta per l’ordine liberale”), in cui gli eccessi dei mercati hanno eroso il potere politico espresso dalla volontà sovrana degli stati, portando al limite l’utilitarismo della crescita e diffondendo la competizione come il valore fondante della società contemporanea.
Questo ha comportato disuguaglianze sempre crescenti ed un passaggio dal “rules of law” al “rules by law”, in cui le regole sono state piegate al sostegno delle posizioni di privilegio.
Per mantenere una sostenibilità sociale, funzionale alla crescita del sistema ci si è sempre più affidati alla tecnologia, ma la suddivisione dei benefici dovuti all’aumento della produttività tecnologica è andata sempre più a beneficio del capitale, mentre i redditi da lavoro sono sempre stati più erosi.
Le crisi socioeconomiche conseguenti sono state contrastate attraverso operazioni di supporto alla domanda e, quindi, ai consumi, con bassi costi dei servizi, minimizzando il costo del lavoro e stimolando una competizione internazionale, fondata sulla tempestiva possibilità nell’approfittare dei vuoti legislativi, adattare le leggi alle esigenze del grande business, come, ad esempio, è stato fatto in Europa con la competizione fiscale.
Dopo gli anni ’80 abbiamo assistito a fasi caratterizzate da bulimia di capitale, anoressia di lavoro, investimenti finanziari remunerati più di quelli produttivi. Condizioni che, come sostiene Piketty, se portano il tasso di remunerazione finanziaria superiore per molto tempo a quello produttivo destabilizzano il sistema e fanno aumentare le disuguaglianze, misurate non solo in termini di reddito, ma anche di esclusione di competenze dal mercato, con percorsi formativi sempre meno efficaci, perché sempre un passo indietro rispetto alla velocità della crescita delle esigenze dei mercati. Il passato divora il futuro.
Una risposta politico-sociale a questo fallimento di democrazia basata sulle regole e sui valori è stato il populismo, che, per sua natura, nega la tendenza composita del popolo e che di fronte alle differenze interne, si porta dietro il desiderio di ritrovare una classe sociale omogenea, da contrapporre alla longa mano della globalizzazione. Nel cercare una difesa della sovranità, travolta dalla globalizzazione, e nel tentativo di ricostruire quell’impossibile omogeneità sociale, il populismo si rifugia nel nativismo, nella razza, nel “sangue”.
Ma, se questo popolo immaginario non viene associato ad una coscienza di cittadinanza, caratterizzata da doveri e diritti, con i primi che non sono definiti e tanto meno introiettati, diventa poi difficile sperare, tanto per fare un esempio, in una regolamentazione dei flussi migratori, razionale, ma rispettosa di valori fondanti della propria comunità. Una speranza che per la destra nasce dalla difesa dei pochi privilegi acquisiti e, per la sinistra, diventa una elargizione di social card.
È in questo contesto, che si perde la valorizzazione della democrazia come forma di governo che gestisce l’eterarchia, cioè la ricomposizione ordinata di diversi fini e valori che forniscono regole per il mercato, che, per sua natura, ha un solo fine quello dell’aumento del valore della produzione. In queste condizioni assistiamo ad una democrazia sfigurata, oltre che dal populismo da altri due tipi di derive: la delega al tecnicismo che attraverso algoritmi garantirebbe utilità sociale, quando, in realtà, l’utilità sociale non può essere distinta dai valori e, quindi dalle scelte; la concezione plebiscitaria che evita o svalorizza il dialogo tra popolo e istituzioni. Proprio quel dialogo che permette di assegnare a pochi il potere, ma a molti di controllarlo ed in cui la separazione tra il potere di chi gestisce e di controlla, la cosiddetta segregazione di funzioni, è fondamentale e sta alla base della autonomia dei tre poteri: legislativo, giudiziario, politico.
Ma la democrazia non è stata trasfigurata da un complotto di potenti che si sono uniti tra loro consapevoli fin dall’inizio della deriva che stavano pianificando. È vero che le élite si saldano tra loro e che non siamo tutti nella stessa barca, ma questo non vuol dire che questa condizione sia stata pianificata dalla Spectre. Identificare, quindi, l’occidente in pochi capi, sicuramente protagonisti della svolta neoliberista, Reagan, Thatcher, Blair, Bush o l’economista Friedman, come pifferai consapevoli della strada e della meta a cui volevano arrivare, ammiratori e amanti dei beneficiari capitalistici dei giorni nostri è ovviamente improprio. Rendersi conto di questo fatto, razionalmente banale, istintivamente un po’ meno, non significa redistribuire e annacquare le responsabilità: non siamo sulla stessa barca, neppure su questo piano. Ma significa comprendere dove potrebbero stare le soluzioni che danno risposte alle cause di fondo della rottura dell’equilibrio di un sistema, invece di immaginare scorciatoie percorse da un popolo portatore degli stessi nostri bisogni e obiettivi e da un conduttore che sia un avatar di noi stessi. Se si pensa ai complotti, infatti, si rischia di immaginare una soluzione nell’arrivo di uomini nuovi, con valori diversi, credibili in base alla nostra fiducia istintiva (un istinto che, però, è di solito viziato dal gruppismo, cioè da quel movimento collettivo più o meno inconscio che induce la conformità).
Ma se si attribuisce il motore del degrado della democrazia e degli eccessi neoliberisti dei mercati ad un’espansione nella continua appropriazione delle regole ad uso del potere, che così facendo non riesce ad isolare le disuguaglianze della vita quotidiana e dei mercati dalle disuguaglianze sociali e politiche, allora la soluzione sta nel lavorare sui valori che stanno alla base più del processo democratico che non delle singole manifestazioni. Bisogna capire quali sono i meccanismi che inducono uno stormo composto da tanti uccelli neoliberisti a prendere quelle deviazioni, quando le regole per correggere la rotta di uno stormo non sono le stesse di quelle che servono per rendere innocuo un singolo lupo neoliberista. Lupi, che, pur non pianificando e non accordandosi tra loro per mangiarsi le pecore, tendono naturalmente a trasformare i vantaggi acquisiti in privilegi, sempre più legittimati. Persino nel feudalesimo, la distribuzione di cariche era funzionale a quel sistema, ma non era stato “pensato” come una distribuzione di privilegi. Sono diventati tali successivamente e non solo per il meccanismo ereditario del titolo, ma anche perché, a quel titolo non corrisponde più una funzione ed il relativo potere.
Bisogna cercare quindi di non limitarsi a volere un mondo diverso (maggiori uguaglianze, minori ruberie, ecc.), sperando di trovare l’uomo nuovo, mitico conduttore, di cui ci si fida e a cui è permesso di bypassare le regole che pensiamo diventino un ostacolo alla sua opera benemerita. La revisione da fare sta nel processo, immaginandolo sganciato dall’utilitarismo, ma come una modalità di governance che esprima le preferenze valoriali di una comunità, assegnando il potere a chi è in grado di interpretare questo cambiamento. Altrimenti il rischio è sempre quello di cambiare tutto, per non cambiare nulla: non ci sono uomini nuovi a cui affidare il raggiungimento degli obiettivi, certi che questa volta corrisponderanno con i nostri e con il benessere dei nostri figli.
C’è, perciò, solo una soluzione: tentare di riformare il sistema o lasciar perdere e abbandonarci ad uno nuovo che non pone vincoli al funzionamento dei mercati neoliberisti se non nell’interesse dell’oligarchia politica, come quella cinese o russa. In quei sistemi la regolazione avviene, come è noto, attraverso una concessione dell’élite politica, di etnia Han nel caso della Cina.
Perché la democrazia sia un’altra forma di regolazione tra politica e mercato, rispetto a quella oligarchica, occorre che la prima sia indipendente dal secondo e l’inclusione sociale e il sistematico contenimento delle disuguaglianze (che è un valore per il funzionamento della democrazia) sia un prerequisito per i mercati e non solo una condizione per l’efficienza ed efficacia della crescita economica. Proprio per questo, le politiche sociali degli stati democratici devono far parte delle regole concordate e queste essendo il frutto di una scelta di campo caratterizzano la stessa identità della comunità democratica e ne definiscono i confini. Solo in questo modo la libertà di commercio, con regole di giusta distribuzione interna dei benefici ai cittadini e distribuzione esterna tra Stati sulla base della collaborazione e non competizione può essere un fattore per la pace nel mondo, come era stato pensato nel dopoguerra.
E solo così i sistemi democratici sono identificabili e quindi sono portatori di un’identità riconosciuta, molto meno indotta rispetto ad altri sistemi e che, per questo, li rende forti, coesi ed in grado di sostenere con la determinazione necessaria, accordi di pace, senza delegare ad altri tale forza. Ma tutto questo significa avere valori non mercificabili, non monetizzabili e non per questo fondati su religioni, che, nel momento che vengono strumentalizzate e mettono la propria bandiera sopra una collettività sovrana, finisce che se ne servono per bastonare gli altri.
Le regole di un processo che garantisce condivisione e partecipazione diventano, in queste comunità democratiche, il frutto di valori fondanti e non solo strumenti di raccolta dei consensi.
Verrebbe da chiedersi se, per riformare questo processo, immaginato dai leader post Seconda guerra mondiale, ci voglia un soggetto che si assuma una leadership, un coordinamento. Se non fosse l’America, che è stata responsabile della creazione di un ordine liberale, ma anche della sua rottura, chi potrebbe esserlo? Potrebbe esserlo l’Unione europea? Ma questa è un’altra domanda, un’altra questione che merita una successiva riflessione.
(31 agosto 2023)
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