di Vanni Sgaravatti
Il tipo di infrastrutture determinano il tipo di società, come sostiene Jeremy Rifkin nel suo libro “Tipensare l’esistenza su una terra che si rinaturalizza”. E, in estrema sintesi: tre sono gli elementi che caratterizzano le infrastrutture: energia, comunicazione sociale e trasporti.
Nella prima rivoluzione industriale: carbone, telegrafo, treno a vapore.
Nella seconda rivoluzione industriale: petrolio, radio/tv, combustione autonoma (auto, ecc.).
Nella terza rivoluzione industriale (in corso): elettricità digitalizzata e rinnovabili, internet sociale e big data, trasporti autonomi e pianificati (in via di studio).
Le prime due rivoluzioni industriali hanno favorito la centralizzazione del potere e i diritti di proprietà sono stati elementi fondanti. Nella terza ci sono due alternative, due modelli che si combattono fino alla morte: il primo è quello relativo al mantenimento della centralizzazione del potere, cioè il capitalismo di sorveglianza: Cina, Russia, e multinazionali del “mondo digitale”, il secondo è quello “democratico con responsabilità decentrata”. Naturalmente, nel primo modello, la differenza sta che nel primo caso (cinese-russo), la sorveglianza è un valore dichiarato, nel secondo la sorveglianza è ancora da nascondere. Un potere controbattuto, con successi dubbi, da contropoteri democratici.
Lo scontro tra i due modelli è epocale. Dietro ci sta un nuovo modo di pensare l’uomo e nel piatto ci sta pure l’estinzione. Il fatto che, se va male, abbiamo ancora un secolo prima che l’estinzione arrivi a lambire le nostre terre, non significa che non sia imminente. Un secolo è un battito di ciglia per i tempi di un’estinzione.
Le forze culturali a favore del mantenimento del potere centralizzato (il primo modello) e che inducono comportamenti che vanno in questa direzione sono tante: dalla diffusione di un attaccamento alla propria comfort zone (attaccati come delle cozze); a quelli che si sentono tagliati fuori dalle incomprensibili dinamiche del mondo digitale e che quindi si affidano volentieri al conduttore; a quelli che lo sono oggettivamente “tagliati fuori”, troppo impegnati a non morire di fame e di sete; ai nostalgici del mondo con poche regole antiche e tradizionali; a quelli che non possono fare a meno di una morale strettamente locale e non universale (non sapendo che in questo modo aprono le porte ad un’adesione alle dinamiche sociali e politiche sulla base di costi e benefici personali, che, quindi, per definizione precludono un’etica). E poi, naturalmente, ci sono gli evidenti scontri politici, istituzionali, tanti, visibili e potenti: la guerra in Ucraina, la repressione in Iran e tante altre situazioni che compongono un lunghissimo elenco. Ne prendiamo una di situazione, quella vicina a noi: l’Ucraina.
Molti dicono che per Putin è impossibile accettare di non raggiungere gli obiettivi della conquista del Donbass e la Crimea. Sarebbe la sua fine. E se fosse la sua fine chi lo sostituirebbe? Un Putin II o un altro Gorbaciov?
La Cina è molto infastidita da questa guerra, ma può permettersi un altro Gorbaciov alle porte, con una protesta sotto le ceneri cinesi? E una vittoria di Putin non costituirebbe la fine della Nato e dell’ONU per molti paesi aderenti, che comprenderebbero come queste istituzioni non sono più neppure un paravento e tanto meno un contrappeso, perché l’unico accordo che conta e che verrebbe definitivamente istituzionalizzato è la spartizione delle sfere di influenza tra grandi potenze? E questo non sarebbe comunque la fine definitiva del modello democratico-multipolare, che già nella realtà fa fatica a sopravvivere? E non bastano queste domande per capire che c’è anche un altro modo di leggere questo conflitto ucraino?
In questa lotta mortale tra i due modelli, abbiamo, però, almeno a livello teorico, la possibilità di una rivoluzione antropologica radicale a favore del secondo (quello democratico), in cui la tecnologia è a sostegno di un modello pensato e condiviso, non centralizzato, con produzione di energia distribuita e relativa responsabilità decisionale altrettanto diffusa. E questo potrebbe accompagnarsi, con il tempo, con una cultura e una morale che, almeno su alcuni elementi, si universalizzerebbero e che ci permetterebbe di sopportare i costi di una redistribuzione dei nostri benefici, grazie a quel sostegno che proviene dal percepire l’importanza del nostro ruolo e, quindi, alimentare il nostro sé di un autentico significato da attribuire alla nostra vita.
Pura utopia vero? Ma è una strada obbligata. Almeno per i cosiddetti catastrofisti. Non abbiamo alternative, siamo obbligati ad essere utopistici. E anche da questo punto di vista, gli Ucraini sono una metafora di questa necessità. Anche se un po’ mi dispiace considerare delle metafore, donne e uomini in carne ed ossa.
Insomma, siamo ad un punto di svolta, o parafrasando Prigogine, premio Nobel della Fisica Chimica nel 1977, siamo ad un punto di biforcazione, in una fase di grande instabilità, dove anche una singola cellula, in modo indeterministico e con un certo livello di probabilità, può prendere una direzione, che, attraverso meccanismi di auto rinforzo, si propaga a tutto il sistema. Dalla scienza ci arriva, quindi, una metafora seducente per sperare non solo in un cambiamento del sistema a scala umana, ma anche per percepire il contributo di ognuno di noi, cellule molto particolari. L’utopia è anche quella di contare nel supporto di un’etica diffusa, che ci orienti verso un valore superiore alla nostra stessa sopravvivenza e che sia il frutto di libero arbitrio, almeno percepito come tale, che fornisce un significato alle nostre decisioni, ai nostri comportamenti e, quindi, alla nostra vita, indipendentemente dalle gratificazioni dei risultati ottenuti.
Siamo unici, infatti, ma non siamo unici ad essere unici e, per questo, dobbiamo sentirci pienamente nel mondo, anche se, dobbiamo accettare di non poter univocamente determinare le sorti di tutti e persino le nostre, nonostante l’impegno profuso.