di Vanni Sgaravatti
Non è il compromesso della sostenibilità, giustamente così di moda oggi, il vero cambiamento, ma, piuttosto, l’introduzione di due concetti che sono stanti banditi dal mondo del lavoro: a) non trattare l’altro solo come uno strumento, ma considerare la relazione con l’altro, un fine in sé stessa; b) ritrovare la responsabilità e la gioia per il contenuto di quello che fai e non solo per come lo fai.
Solo così si può ritrovare l’umano nel lavoro, cioè nell’esperienza di vita che assorbe il tempo maggiore della nostra vita, della nostra educazione e formazione. Su questi due punti, espongo due riflessioni (la prima, in parte tratta dal testo del filosofo Byung-Chung Han):
a) Il piccolo principe di Antoine de Saint Exupéry illustra bene cos’è una cosa che sta a cuore. Il piccolo principe incontrò una volpe e le propone di giocare. La volpe sostiene di non poterlo fare, in quanto lui non l’ha ancora addomesticata.
Al ché il piccolo principe chiede alla volpe cosa significa addomesticare. La volpe risponde:
è una cosa che ormai non si usa più. Vuol dire creare legami. Tu per me ora non sei altro che un ragazzino identico a 100.000 altri ragazzini. Ed io non ho bisogno di te e neanche tu hai bisogno di me. Per te io non sono altro che una volpe uguale a 100.000 altre volpi. Ma se tu mi addomestichi, avremmo bisogno l’uno dell’altra. Tu diventeresti per me unico al mondo. Io diventerei per te unica al mondo”.
Oggi i legami intensi perdono sempre più di significato, sono soprattutto improduttivi, poiché solo quelli deboli accelerano il consumo e la comunicazione. Così il capitalismo distrugge sistematicamente i legami. Oggi anche le cose del cuore sono rare. Cedono il passo agli articoli usa e getta.
Proseguì la volpe:
Gli uomini non hanno più tempo di conoscere niente. Comprano nei mercati cose già belle e fatte. Ma visto che non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici”.
Oggi qualcuno gli avrebbe potuto dire che esistono pure i negozi per gli amici, chiamati Facebook o Tinder.
Dopo aver incontrato la volpe il piccolo principe si rende conto come mai la rosa per lui è così unica:
è lei che io ho protetto con un paravento. È lei che ho ascoltato lamentarsi, vantarsi, o persino ogni tanto stare zitta. Perché è la mia rosa”.
Il piccolo principe da tempo alla sua rosa, dandole ascolto. L’ascolto è rivolto all’altro. Il vero ascoltatore si espone all’altro senza riserve: in assenza di questa esposizione all’altro, l’io rialza il capo. Considerare l’altro un fine della relazione e non solo uno strumento per raggiungere un fine, implica un’etica dell’ascolto, che è parte di un’etica della responsabilità. L’ego che va rafforzandosi non riesce ad ascoltare poiché sente parlare, ovunque, solo sé stesso. Riducendo e riducendoci a strumenti l’uno dell’altro, tendiamo ad imitare le macchine che non sono intelligenti, per come noi intendiamo questa abilità cognitiva, quella necessaria per risolvere i problemi che la nostra vita, incarnata ci pone. Le macchine non sono incarnate ed è per questo che non hanno obiettivi propri, sono un insieme di informazioni, che, in quanto tali, non muoiono, e, quindi non vivono.
Noi vogliamo imitare le macchine e trattarci come macchina forse perché, inconsciamente, invidiamo la loro eternità. Ma l’essere eterno dell’informazione più o meno elaborata è senza identità, senza storia, proprio quella di cui abbiamo angoscia di perdere.
Se anche noi non diventeremo nulla dopo la nostra morte, è molto probabile, però, che non ci ricorderemo di questa identità. Non nello stesso modo che facciamo ora fatica ad abbandonare.
L’importanza del contenuto di quello che fai
Primo Levi in un’intervista a Philip Roth del 1986 afferma:
Sono convinto che l’uomo normale è biologicamente costruito per un’attività diretta ad un fine e che l’ozio o il lavoro senza scopo induce sofferenze ed atrofia. Ad Auschwitz ho notato un fenomeno curioso: il bisogno del lavoro ben fatto è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra, ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale.
“Arbeit Macht frei”, il lavoro rende liberi: queste erano le parole che si leggevano all’ingresso del lager di Auschwitz. Per il mito nazista lo svilire, il disconoscere, il disprezzare il lavoro umano è essenziale. Tutti i prevaricatori nutrono la volontà di sfruttare il lavoro, di negargli ogni valore umano. Nella realtà concentrazionaria, questa volontà di negazione realizza il più organico e funereo compimento.
Possiamo dire che, da questo punto di vista, l’orgoglio professionale del lavoro ben fatto si erge come atto di sopravvivenza e di riscatto dell’uomo? Può essere vero anche nella vita di tutti i giorni, lontani da una situazione estrema come quella vissuta nei campi di concentramento? Nell’età della tecnica non si viene valutati per il contenuto del lavoro ma per la modalità con cui lo si esegue.
“Nothing. It was my job” (Niente, era solo il mio lavoro). Così risponde il pilota americano che ha sganciato la bomba atomica su Hiroshima al filosofo Gunther Anders quando questi gli domandava che cosa ha provato a sganciare la bomba sulla città. L’aviatore non provava niente, non doveva provare niente perché stava semplicemente facendo il suo lavoro. L’aviatore bravo è andato a segno, ha fatto il suo lavoro. È il responsabile del contenuto del lavoro? No, ciò che fa non dipende da lui. Non è lui a decidere, deve solo seguire azioni prescritte. E se sgarra non funziona.
L’esperienza dei campi di concentramento da questo punto di vista è stata tragicamente esemplare: Sereny, una giornalista britannica, aveva fatto delle interviste oggi pubblicate anche in Italia in un libro di Adelphi: “In quelle tenebre”. Tra queste spicca quella a Frank Stangle, comandante del campo di concentramento di Treblinka, a cui viene chiesto cosa avesse provato nel mandare a morte migliaia di persone. Davanti alle sue risposte evasive, la giornalista capisce che Stangle, in realtà, non comprende fino in fondo la domanda. Infatti, a un certo punto sbotta così:
Ma perché continua a chiedermi cosa provavo? Io non ero incaricato di provare qualcosa, ma di far funzionare il campo di cui ero responsabile. Quello era l’ordine ed io mi sono dimostrato un ottimo funzionario, perché il sistema che avevo costruito funzionava perfettamente”.
Nell’età che stiamo vivendo, dominata dalla tecnica, non si richiede educazione sentimentale, ma prestazioni all’altezza delle aspettative. Si può vivere in queste condizioni, dove il controllo non viene esercitato solo dall’alto ma anche dai propri pari?
Prendiamo il caso di una grande burocrazia in un apparato pubblico o privato di servizi. In quell’organizzazione tutti i processi prevedono che il singolo lavoratore faccia sempre le stesse cose senza alcun investimento emotivo o creativo. Deve solo seguire pedissequamente quanto previsto dalla sua mansione. È allora possibile che il cliente o l’utente in difficoltà, non riuscendo a districarsi dalla macchina burocratica, gli si rivolga in cerca di aiuto. È anche molto facile allora che il malcapitato si senta rispondere in maniera formale: “Lei mi sta chiedendo qualcosa non previsto dal mio mansionario”. Una risposta che ognuno di noi si è trovata a ricevere, che riflette una logica disumanizzante, dove la persona è annientata davanti alla ferrea logica, quando l’organizzazione viene vista e vissuta come una macchina.
In quel caso, l’utente si trova di fronte a un piccolo Frank Stangle, che risponde solo dei compiti che gli sono stati assegnati, solo nei confronti dei suoi superiori. Non è mai responsabile degli effetti delle sue azioni. In quella situazione drammatica e feroce del campo di concentramento, l’orgoglio professionale del lavoro ben fatto è la risposta della sopravvivenza di chi cerca di reagire a una logica disumanizzante, affermando la propria identità e il proprio valore.
Ma nella vita quotidiana, meno estrema di quella vissuta nei campi di concentramento? Nella quotidianità è la ferrea logica della tecnica ad imporsi. La tecnica non è la tecnologia, cioè il modo con cui funzionano gli oggetti che utilizziamo. La tecnica è una forma di razionalità, cioè il raggiungimento del massimo degli scopi con il minimo dei mezzi. Se noi, nel nostro ragionamento diamo come dati obiettivi umanamente condivisi, allora questa forma di razionalità rappresenta un percorso ideale.
Ma da dove proviene la scelta degli obiettivi?
In realtà sembra che sempre più si tenda a considerare come dato di partenza “i mezzi” da cui far emergere gli obiettivi più adeguati. In questo modo, però, sono gli strumenti originati dalla tecnica a cui l’uomo si adatta come nel famoso letto di Procuste. L’irrazionalità costituisce una parte dell’essenza dell’uomo e questa viene richiamata proprio nel processo di definizione degli obiettivi che non procedono in modo lineare partendo dai mezzi disponibili. In realtà, gli imprenditori, quelli che fanno parte di quella classe che emerge da un sistema che ne genera un numero sempre più basso per un potere di gestione e di ricchezza sempre più alto, hanno la possibilità di mettere in gioco la parte irrazionale nella determinazione degli obiettivi. La razionalità tecnica viene invece richiesta per la realizzazione di quegli obiettivi, da altri umani che devono spogliarsi dalla loro parte più tipicamente umana, quella irrazionale. Sostanzialmente non devono pensare al contenuto, all’obiettivo finale, se non limitato ad un’autonoma selezione dei mezzi disponibili. Siamo alle solite: è il classico sistema per la produzione della divisione tra padroni e schiavi richiamata nel libro di Bodei.
Ed è per questo che uno degli ambiti di confine, di frontiera, una vera prima linea per uno scontro rivoluzionario è quello che si gioca nei luoghi di lavoro, ancora più che nei luoghi di decisione politica dove si crede di determinare i destini, ma che, in realtà, come nella caverna di Platone, non si vede lo scarsissimo margine di manovra e di cambiamento che hanno chi frequenta quei luoghi, quelle agorà.
Ciò non significa che le vere decisioni stanno in luoghi dove dirigenti finanziari decidono le sorti del mondo. Anche quelli, raggiunto il potere, lo gestiscono, come tutti naturalmente fanno, utilizzando i mezzi che la cultura del sistema attuale mette a disposizione: non più fruste o riti di incoronazione. È nei luoghi di lavoro il cambiamento, dove il tecnico o il dirigente pur avendo scrupoli di coscienza sugli effetti finali delle azioni che gli viene richiesto di adottare, sa che così facendo rischia ancora più che l’espulsione, la marginalizzazione, quella condizione che tutti gli umani temono. È questo lo scenario che dobbiamo impegnarci a cambiare, perché il rischio è quello di ridursi a non capire cosa è bello, che cosa è vero, che cosa è giusto, che cosa è santo, e capire solo cosa è utile.
Ma un’utilità che rimanda ad un’altra utilità, in un processo infinito, non dà nessun senso alla vita. Non potrà mai essere oggetto di desiderio e mezzo per raggiungere la felicità”
diceva Umberto Galimberti in dialogo con Paolo Iacci, ma potrà solo per momenti contingenti, fornire un benessere percepito negli scampoli di vita fuori dal lavoro.
(21 agosto 2022)
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