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“Non ce la facciamo più”: l’allarme di De Pascale svela il fallimento del Sistema Italia

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di Massimo Mastruzzo*

«Non ce la facciamo più, non riusciamo a soddisfare i nostri cittadini e l’enorme pressione delle altre regioni che si vengono a curare in Emilia-Romagna e ci stanno intasando il sistema».
— Michele de Pascale, presidente della Regione Emilia-Romagna

Quelle parole, pronunciate a Radio24, sono rimbalzate nel dibattito politico come un allarme sanitario, ma in realtà raccontano molto di più: il fallimento strutturale del “Sistema Italia”, un Paese che continua a violare lo spirito dell’articolo 3 della Costituzione, investendo di più dove c’è già di più e lasciando indietro chi avrebbe più bisogno.

Un’Italia divisa e costituzionalmente disomogenea

Da decenni si parla di “unità nazionale”, ma dietro questa formula si nasconde una realtà diversa: un’Italia coloniale dentro i propri confini, dove il Nord centralizza risorse, infrastrutture e opportunità, e il Sud resta serbatoio di manodopera, pazienti e consenso.

Il “pregiudizio antropologico” che da sempre pesa sul Mezzogiorno si traduce in scelte economiche e amministrative che alimentano disuguaglianze invece di ridurle.

La denuncia di De Pascale, forse involontaria, è dunque il sintomo di un sistema malato: se l’Emilia-Romagna “non ce la fa più” a gestire la domanda sanitaria proveniente dal Sud, la vera domanda è perché i cittadini meridionali siano costretti a fuggire per curarsi altrove.

Ogni anno decine di migliaia di pazienti del Mezzogiorno si spostano per ricevere cure adeguate in strutture del Nord.

Questo fenomeno, definito “migrazione sanitaria”, genera un flusso economico che supera i 5 miliardi di euro: soldi pubblici che scorrono dalle regioni povere verso quelle ricche, impoverendo ulteriormente i sistemi sanitari meridionali.

Così, mentre le regioni del Nord incassano, quelle del Sud si svuotano.

E quando un presidente lamenta “pressione” per l’arrivo di pazienti da altre regioni, viene spontaneo chiedersi se non si stia preparando la strada per nuove richieste di fondi statali a favore delle aree già forti, anziché per un piano di riequilibrio vero e duraturo.

A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca.

Il PNRR e l’occasione mancata

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) avrebbe dovuto rappresentare il riscatto del Mezzogiorno.

Invece, anche la gestione dei fondi del Next Generation EU ha seguito la solita logica miope: sostenere chi è già competitivo, spostando ancora una volta il baricentro delle risorse verso il Nord.

È l’ennesima conferma che la classe dirigente italiana continua a ragionare in termini di convenienza elettorale e non di giustizia territoriale.

Un Sud che vale più di quanto si voglia ammettere

Gli economisti Alberto Quadrio Curzio e Marco Fortis, nel libro “L’economia reale del Mezzogiorno”, lo spiegano chiaramente: se l’Italia puntasse sullo sviluppo industriale e infrastrutturale del Sud, in pochi anni potrebbe diventare più forte di Francia e Germania.

Non è un’utopia: è un’equazione economica. Ma per molti governanti italiani, quel libro è rimasto sullo scaffale dell’indifferenza. Continuare a penalizzare il Mezzogiorno non è solo un’ingiustizia: è un suicidio economico e politico. Perché nessuna “locomotiva del Nord” potrà continuare a trainare un Paese che zavorra metà di sé.

Un’Italia che ignora il Sud non è un’Italia unita: è un Paese dimezzato, destinato al declino.

Finché non si avrà il coraggio di riconoscere che lo sviluppo del Sud è la condizione di sopravvivenza dell’intera nazione, il “Sistema Italia” resterà un sistema iniquo, inefficiente e insostenibile.

E quando anche chi oggi si crede locomotiva inizierà a rallentare, sarà troppo tardi per accorgersi che senza il Sud, l’Italia non va da nessuna parte.

 

*Direttivo nazionale MET
Movimento Equità Territoriale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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