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Io non sono povero, ma sono un assistente e donatore

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di Vanni Sgaravatti

Si sente molto parlare di carità, di dono gratuito agli altri, in particolare in tempi di crisi e di instabilità economico sociale. L’atto di donare implica un’attività, qualcuno che le compie e spesso un’organizzazione, con una combinazione di risorse atte ad assicurare questo processo di donazione.

In una logica di mercato si chiamerebbero fornitori, i singoli, che, per motivazioni varie, conferiscono il proprio tempo e le disponibilità economiche nel processo.
I beneficiari della carità o dell’assistenza gratuita sono chiamati utenti e, in particolare, in ambito religioso, i poveri, i bisognosi.

Quali caratteristiche hanno le persone per essere etichettate “utenti” o “poveri”? Sugli utenti non mi dilungherei, sono beneficiari, portatori di bisogni, che appartengono alla categoria che il servizio assistenziale si sente di soddisfare, in cui il richiamo all’essere una persona umana, prima di un bisognoso, avviene solo in un secondo tempo, per giustificare il proprio approccio rispetto a valori morali correnti.

Gli utenti si prestano a diventare statistiche, proprio in virtù di quelle caratteristiche che ne definiscono l’appartenenza a classi ben definite. In questo ambito viene salvaguardata, fin dalla creazione di definizioni, la divisione tra assistenti e assistiti, perché indipendentemente dal ritrovare, in un secondo momento, fragilità comuni, sono quelli i ruoli nel processo di assistenza. Sui poveri val la pena di riprendere riflessioni fatte da tante persone prima di me, soprattutto intellettuali e un po’ meno praticanti della concreta donazione. Quando qualcuno, in particolare chi si sente profondamente appartenente ad una religione e in virtù dei relativi insegnamenti morali, “pratica” la carità, spesso si sente di aiutare i poveri (così espresso almeno nel linguaggio corrente).

Chi sono i poveri e perché il donatore si sente diverso dal povero? La persona che soffre, per solitudini, malattie, ma che non ha risorse economiche per curarsi e per avere compagnia. Nei tempi moderni, però, non si direbbe di un ricco e sofferente paziente di una clinica oncologica che è un povero.

Che cosa permette ad un donatore di sentirsi diverso dal povero, anche se poi si riconosce in lui in un secondo momento, magari come entrambi ferventi credenti, appartenenti ad una stessa categoria di umanità?

Non deve essere troppo “empowered”. Il povero vero ha la testa bassa, gli occhi rivolti verso il basso, possibilmente un senso di vergogna. L’assistente, attraverso la carità, fatta di donazioni concrete, psicologiche, spirituali e di carità, lo vuole rendere più autonomo, un po’ integrato, senza vergogne, perché in grado di riconoscere il suo valore, a sua volta riconosciuto dagli altri.

Lo sguardo deve dimostrare una parità di condizione rispetto alla fratellanza umana o nella fede; deve dimostrarsi in grado di restituire la stessa umanità a chi facendo la carità si sente umano, buono e ridandogli il senso della vita, talvolta smarrito. Riuniti insieme, poi, poveri e donatori e assistenti costruiscono una comunità, dove i primi assicurano quel senso di comunità, talvolta anch’esso smarrito agli altri.
Ma, attenzione, non troppo però. Il povero deve rimanere comunque, almeno un po’ al suo posto, non può togliere lo spazio al donatore, al massimo può cambiare di gregge, ma non può pensare di mettersi a fianco dei capi bastone, anche al posto del bastone hanno in mano rami di ulivo.

Se superi quel limite che fa paura, perché rompe il riconoscimento da parte dei donatori di essere diversi dall’assistito; perchè, se non superato, permette a loro di non rappresentarsi anch’essi come bisognosi (se non davanti all’”altare”) allora la situazione è diversa e minacciosa. Quel posto, di guida te lo devi conquistare, con la concorrenza, la determinazione, alla pari di chi lavora nel mercato.
Ma con la differenza che nei processi di assistenza o di donazione, non c’è la stessa coerenza comunicativa di quella nel mercato. In questo ambito si dice che “nessun cane mangia cane”, si fa uso di parole che, nei nomi che si usano, identificano il buon cittadino o il buon cristiano, in quanto: tollerante, gentile, accogliente, indipendentemente dalla realtà concreta, ma per ambito di appartenenza.

Personalmente, preferisco comunque affermare questi valori, anche a costo dell’ipocrisia, basta che di questa se ne parli e non solo nei confessionali.

Ma è importante, perché non si esageri con l’ipocrisia ed il rischio di mantenere frammentato e di non farci più sentire “fratelli tutti”, che si abbia il coraggio di riconoscerla, senza per questo ripercorrere le strade fangose con il cilicio addosso di medioevale memoria, ma con quel coraggio del cambiamento derivante da un pensiero profondamente autocritico, che la pandemia e le dieci piaghe d’Egitto dovrebbero indurci ad affrontare. Quel cambiamento che non necessita di vedere nemici e diavoli, per potersi riconoscere diversi e, quindi, amici ed angeli.

L’esperienza come coordinatore del progetto “Cura delle relazioni per la prevenzione del disagio”, un progetto di assistenza sociosanitaria territoriale sviluppato a Bologna, mi sta facendo avvertire, talvolta dolorosamente, questi aspetti, nella quotidianità nelle relazioni tra istituzioni e organizzazioni di volontariato.

Ed è dolorosa ancora la strada da percorrere nella ricerca di un dialogo comune per poter riconoscere e condividere le motivazioni, le visioni, per prendersi cura del rapporto tra “l’io ed il noi”.

Un rapporto che non è mai risolto del tutto e che richiede un continuo coraggio di destrutturare quanto costruito fino a quel momento, per andare oltre e superare, ricostruire qualcosa di davvero migliore, superando i tentativi di adagiarci nelle situazioni di comfort.

Comfort zone che sono create anche dai ruoli, che, anche nell’ambito del volontariato e dell’assistenza, vengono riconosciuti come ruoli di potere e di scambio dalle stesse persone o pecorelle, a volte collaboratori, a volte seguaci del leader.

Leader più o meno consapevoli delle loro strategie di protezione di tali ruoli, che spesso si giustificano, pensando che il mantenimento delle attuali relazioni di governo non è una condizione richiesta da loro stessi, ma dalle organizzazioni che si affidano a loro per essere preservate.

Nulla di sociologicamente nuovo, me ne rendo conto, ma comunque riflessioni sotterrate nei libri, di sociologia appunto.

 

 

(13 settembre 2024)

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